L'Alfetta (progetto n.116) fu la figlia legittima della confusione marketing che regnava all'Alfa Romeo nel 1969. La rivoluzione culturale di quel decennio aveva modificato il "modus vivendi" della società italiana (e non solo), intaccando persino i gusti personali. Di fatto, in Alfa, dubitavano che le sagome delle loro "1750" e "Giulia" avrebbero retto l'impatto delle linee geometriche di quegli anni, ma neppure si voleva scontentare la clientela tradizionale. In un primo tempo si decise di rinnovare la "1750" con aggiornamenti estetici ed una nuova motorizzazione più "europea" che, nel 1971, veniva presentata con la denominazione "2000". Nello contempo si dette anche il via alla realizzazione del progetto "116".
Il Centro Stile Alfa, guidato da Giuseppe Scarnati, disegnò così una vettura intermedia tra la "2000" e la "Giulia", pronta a sostituire il primo modello che avesse perso troppo terreno sul mercato. Linee tese e spigolose e una particolare attenzione allo spazio interno, per vestire uno schema tradizionale e prestigioso da berlina sportiva, settore in cui le Alfa Romeo, all'epoca, erano considerate il "non plus ultra".
Per dovere di cronaca, occorre anche citare il marginale ed estemporaneo contributo di Giorgetto Giugiaro che, incaricato nel 1968 di progettare la nuova Alfa coupé, stava terminando gli esecutivi di quella che sarebbe poi diventata l'Alfetta GT.
Al fine di tranquillizzare la clientela circa l'abbandono dello schema tradizionale per il moderno "transaxle", si fece ricorso alla citazione delle glorie sportive Alfa Romeo scegliendo il nome di Alfetta e così ufficializzando l'affettuoso nomignolo con cui i tifosi avevano soprannominato le Alfa Romeo 158 e 159 da Formula 1 che vinsero il campionato mondiale nel 1950 e 1951 con Nino Farina e Juan Manuel Fangio.
Il nuovo modello si dimostrò subito ottimo, sia per estetica che per prestazioni, ma le previste polemiche infuriarono ugualmente, dividendo gli "alfisti" nella fazioni "modernista" e "tradizionalista". Infatti, pur guadagnando enormemente in tenuta e stabilità, a causa dei più complessi leveraggi di comando del cambio, l'Alfetta aveva perduto parzialmente la proverbiale dolcezza d'innesto dei rapporti, rispetto ai modelli precedenti.
Senza riuscire a prendere una posizione, l'azienda cercò di accontentare entrambe, lasciando in produzione la "2000" fino al 1976 e la "Giulia" fino al 1978. Ragion per cui, l'Alfetta venne prima ostacolata dalla concorrenza interna e, arrivato il momento di spiccare il volo, era ormai un'automobile "anziana" per gli standard tecnologici che un pubblico dal palato fine come gli "alfisti" si aspettava da un'Alfa Romeo. Questo atteggiamento irresoluto tra passato e futuro, fu una delle principali cause della crisi che affossò l'azienda nel decennio successivo e la portò, ormai esangue, nell'orbita del Gruppo Fiat.
La nuova "Alfetta" avrebbe dovuto essere la vedette del Salone dell'automobile di Torino dell'ottobre 1971 e già in agosto erano state diffuse le caratteristiche tecniche alla stampa specializzata. Tuttavia, la scelta di dare il maggior risalto alla contemporanea "Alfasud", il timore di oscurare la "2000" e una serie di scioperi nella fabbrica di Arese, fecero slittare la presentazione di oltre sei mesi. Presentata nel maggio 1972, l'"Alfetta" fu senza dubbio una delle Alfa Romeo più innovative del dopoguerra. Essa infatti pur rispondendo a tutti i canoni tipici del marchio rappresentava una forte innovazione rispetto ai modelli precedenti. La sua linea tutta segnò un punto di rottura con lo stile classico Alfa Romeo che avrebbe ispirato a lungo l'evoluzione della gamma della casa del Portello. Rimase sul mercato fino al 1984 quando venne sostituita dalla "90".
La linea dell'Alfetta è squadrata, scevra da venature e pieghe, moderna per l'epoca ma classicizzata dal frontale tipicamente Alfa Romeo con i doppi fari tondi in cornici cromate e lo scudetto in posizione centrale. Guardavano alla tradizione i paraurti a lama in acciaio inossidabile, le tre barre cromate sulla calandra e le maniglie delle portiere. Così se la parte anteriore era bassa, raccolta e relativamente slanciata la parte posteriore presentava la novità più evidente: La coda alta che oltre a garantire vantaggi sul piano aerodinamico offriva una capacità di carico quasi da record per la categoria.
All'interno non ci si era discostati dalla tradizionale formula Alfa Romeo. La plancia con la didascalia “Alfetta” in corsivo e gli inserti tipo legno era completata da un quadro strumenti completo e soprattutto molto leggibile che comprendeva oltre al tachimetro e al contagiri gli indicatori di livello carburante, temperatura acqua e pressione lubrificante oltre a una completa dotazione di spie.
Il posto guida, ben realizzato, favoriva la guida a braccia distese e prevedeva anche la regolazione in altezza del volante. L'abitacolo era nel complesso molto accogliente e spazioso; l'assenza del cambio all'uscita del motore infatti aveva permesso di snellire abbastanza la parte anteriore del tunnel centrale tanto da dare un'incredibile sensazione di spazio ai posti anteriori. Quelli posteriori pur disponendo invece di molto spazio in senso longitudinale erano inficiati dall'ingombrante presenza del cambio posteriore che aveva costretto i progettisti dell'Alfa Romeo a gonfiare il tunnel centrale tanto da compromettere il comfort del passeggero posteriore seduto al centro.
Il portabagagli seppur di generosissime dimensioni non era sfruttabile a pieno per via della molto alta soglia di carico che poteva costringere a fastidiosi sollevamenti e tendeva ad aumentare il pericolo di danneggiare la carrozzeria negli usi più intensi. Sotto il piano di carico trovavano posto la ruota di scorta e il serbatoio carburante di 50 litri. L'ampia vetratura garantiva una buona visuale in ogni direzione e solo in retromarcia la spiovente coda necessitava di una buona dose di pratica prima di poterne valutare correttamente l'ingombro. La dotazione, seppur non eccezionale, era buona per l'epoca e sarebbe stata arricchita con il passare delle generazioni sino ad arrivare alla fin troppo ricca ed elaborata Quadrifoglio oro del 1983. Nel 1972 il prezzo di listino era di L. 2.441.600, cui occorreva aggiungere L. 26.880 per l'interno in texalfa, L. 19.040 per il lunotto termico, L. 16.240 per gli appoggiatesta regolabili e L. 106.400 per la finizione metallizzata, unici accessori disponibili.
Quello che lasciava a desiderare, come spesso era accaduto nella storia dell'Alfa, erano le finiture, solo approssimative e non di rado piene di difetti di lavorazione e di materiali di scarsa qualità. Ma gli Alfisti veri non compravano certo le loro macchine per sfoggiare la cura costruttiva di sedili e guarnizioni, quello che contava maggiormente erano le prestazioni e infatti la parte del leone era, secondo la tradizione, riservata alla raffinata meccanica.
La meccanica
Il classico bialbero Alfa Romeo di 1779 cm³ derivava direttamente da quello della 1750 modificato nella forma dei collettori di scarico e della coppa dell'olio per permettere di elevarne la potenza a 122 CV DIN ed aveva caratteristiche tecniche in parte non ancora completamente diffuse oggi tra i propulsori moderni. Costruito completamente in lega di alluminio aveva le canne dei cilindri di ghisa riportate e sfilabili. I due alberi a camme in testa mossi da una doppia catena silenziosa anteriore che garantiva un'eccellente affidabilità e durata, azionavano direttamente le valvole attraverso i bicchierini in bagno d'olio ad essi interposti, il che se da un lato rispondeva a esigenze di affidabilità e sportività, dall'altro rendeva la regolazione del gioco un'operazione più complessa, anche se meno frequente. Le due valvole erano inclinate a 80° per formare una camera di combustione emisferica ad alto rendimento, e quelle di scarico erano raffreddate dalla presenza nello stelo di sodio che ne diminuiva la temperatura durante l'uso passando dallo stato solido a quello liquido e garantendo così una più lunga durata delle stesse.
Il tutto era raffreddato dal liquido contenuto nel circuito sigillato provvisto di radiatore con la ventola per la prima volta mossa da motore elettrico azionato da un interruttore termostatico, anziché direttamente dal motore come sulla 1750. L'alimentazione era assicurata da due carburatori orizzontali doppio corpo Weber 40 DCOE/32 riforniti di carburante dalla pompa meccanica. Vennero allestite anche vetture destinate al mercato d'oltreoceano provviste di iniezione meccanica Spica.
La novità vera fu l'inedito posizionamento del cambio a 5 marce al retrotreno in blocco con differenziale e frizione azionata idraulicamente (soluzione sostenuta da Giuseppe Busso), allo scopo di restituire un'ottimale distribuzione che migliorasse la tenuta di strada, rispetto ai precedenti modelli derivati dalla "Giulia". Ma inedito era anche lo schema delle sospensioni posteriori che adottavano per la prima volta su una vettura stradale della Casa un raffinato ponte De Dion costituito da un traliccio di tubi d'acciaio triangolare con il vertice imperniato anteriormente che mirava alla riduzione delle masse non sospese in modo da garantire una maggiore motricità alle ruote posteriori. A tale scopo i freni a disco posteriori vennero spostati dalle ruote alla flangia dei semiassi sul differenziale. Su vetture di serie, fino ad allora, tali soluzioni tecniche erano state riservate a modelli di classe elevata come la Lancia Aurelia degli anni cinquanta della quale l'Alfetta riprende il sofisticato schema tecnico "transaxle".
Le sospensioni anteriori indipendenti seguivano lo schema a bracci trasversali oscillanti e usavano come elementi elastici delle barre di torsione. Il tutto era completato da ammortizzatori idraulici e barre stabilizzatrici sia sull'avantreno che sul retrotreno. I freni erano tutti a disco con comando idraulico a doppio circuito, servofreno a depressione e limitatore di frenata sul retrotreno. Il freno a mano agiva sulle ruote posteriori.
Il comportamento su strada dell'Alfetta continuava la tradizione della casa con doti dinamiche sportiveggianti. La tenuta di strada era eccellente anche se caratterizzata da un certo rollio. Il comportamento in curva era fondamentalmente neutro anche alle alte velocità, proprio in virtù della perfetta distribuzione dei pesi. Se portata al limite l'Alfetta presentava un sensibile sottosterzo iniziale che ne rendeva la guida facile anche a piloti non troppo esperti. Solo esagerando con l'acceleratore o nelle curve molto strette, dove si sentiva il bisogno di un differenziale autobloccante, il retrotreno poteva riservare qualche sorpresa. Il motore, pur avendo guadagnato 4 CV rispetto alla versione montata sulla 1750 si dimostrò molto grintoso agli alti e particolarmente elastico ai bassi e medi regimi, permettendo sia una guida sportiva che una rilassata con un occhio al comfort e ai consumi.
Nelle prove su strada dello stesso anno l'Alfetta si dimostrò capace di raggiungere i 184 km/h di velocità massima e con un'accelerazione 0-100 km/h in 9,8 sec. si posizionò ai vertici della sua categoria. Il suo tallone d'Achille stava invece nelle caratteristiche del cambio che poco si addicevano al tipo di auto. Esso era infatti caratterizzato da una manovrabilità lenta e imprecisa specialmente in scalata per le prime due marce, dovuta più ai vari rinvii di comando che al disegno degli organi meccanici, molto simile al lodatissimo cambio della serie Giulia. Il posizionamento, poi, faceva sì che la carrozzeria amplificasse la rumorosità degli ingranaggi. Anche la frizione non era esente da critiche per il suo brusco innesto, mentre i giunti in gomma dell'albero di trasmissione hanno sempre sofferto di breve vita, nonostante le numerose modifiche a cui furono sottoposti nell'arco della produzione. L'impianto frenante aveva un'ottima potenza, una buona modulabilità ed era insensibile alla fatica anche se era caratterizzato da una certa durezza di azionamento, che piaceva agli alfisti appassionati perché permetteva di dosare con precisione la pressione sul pedale. Lo sterzo, per la prima volta a cremagliera su un'Alfa, era molto preciso e pronto.
Nel 1975, in piena crisi petrolifera, venne presentata la versione semplificata dell'Alfetta, che come prevedibile montava un motore con cilindrata ridotta a 1570 cm³ e potenza di 109 CV (secondo norme DGM). Il nuovo propulsore deriva direttamente dalla versione già montata sulla serie Giulia (nella versione più potente, utilizzata fino al 1974 su GT e Spider): rispetto al propulsore di 1779 cm³ risultano ridotti sia l'alesaggio (78 mm) che la corsa (82 mm). Esternamente la vettura era facilmente distinguibile per la presenza di una sola coppia di fari sul frontale, mentre per il resto, seppur dotata di allestimento più economico, era abbastanza simile alla sorella maggiore. Il comportamento su strada delle due vetture era molto simile. A risentire della diminuzione di potenza erano soprattutto le doti di ripresa da bassa velocità nelle marce più alte. Il presunto beneficio in termini di consumo invece veniva vanificato dalla necessità di mantenere regimi elevati per ottenere un comportamento brillante.
Contemporaneamente l'Alfetta 1.8 subì qualche lieve ritocco estetico facilmente individuabile nello scudetto Alfa ora più largo. Il suo motore invece subì una riduzione di potenza che lo riportò a 118 CV. Nel 1977, al salone di Ginevra, viene presentata l'Alfetta 2.0. La versione due litri porta molte novità. Per iniziare essa è facilmente distinguibile dalle sorelle minori per il frontale ridisegnato che ora oltre a essere più basso e più lungo di ben 10 cm presenta due fari rettangolari. I paraurti sono sempre in acciaio inox ma hanno ora gli angoli in materiale plastico e incorporano inserti in poliuretano e anteriormente anche gli indicatori di direzione. I finestrini anteriori perdono il deflettore e i gruppi ottici posteriori sono maggiorati. All'interno spicca subito la nuova plancia tutta di materiale plastico e il volante di nuovo disegno. Nel complesso la linea appare più moderna anche se più anonima e meno sportiva. Il motore deriva direttamente dalla versione di 1779 cm³ di cui mantiene anche l'originaria potenza di 122 CV. L'aumento di cilindrata viene ottenuta aumentando l'alesaggio a 84 mm ma mantenendo invariata la corsa di 88,4 mm. Viene migliorata l'insonorizzazione delle parti meccaniche e le sospensioni sono maggiormente votate al comfort. Nel frattempo le versioni 1.6 e 1.8 vengono unificate negli allestimenti e nell'aspetto. Nel 1978 la 2.0 diventa “Lusso” grazie a finiture più accurate e il motore viene potenziato a 130 CV. Con l'Alfetta 2.0 turbodiesel nasce nel 1979 la prima vettura italiana sovralimentata a gasolio. Esternamente è distinguibile dalla versione a benzina solo per le feritoie di aerazione sui paraurti anteriori. Questa vettura è spinta da un motore costruito dall'italiana VM Motori che fornisce 82 CV e spinge la vettura ad oltre 155 km/h, facendone la 2000 diesel più veloce all'epoca in produzione. L'aumento di peso dovuto al nuovo propulsore impone un irrigidimento delle sospensioni e una maggiore demoltiplicazione dello sterzo. Anche i rapporti del cambio vengono adeguati. Nello stesso anno la versione 1.8 riacquista gli originari 122 CV di potenza massima ora a 5300 giri/min anziché a 5600 giri/min.
Nel novembre 1981 tutta la gamma viene unificata usando per tutte le motorizzazioni la rinnovata scocca della 2000 aggiornata in vari dettagli estetici quali le fasce paracolpi laterali e le fasce sottoporta in plastica nera. Meccanicamente le modifiche maggiori le subiscono il cambio con i rapporti allungati e le sospensioni ora più morbide e votate completamente al comfort. A risentirne maggiormente fu il comportamento sportivo della vettura. I potenti motori della 2.0 e della 1.8 avevano perso la loro grinta acquistando però notevole elasticità e progressività. Le prestazioni rimanevano comunque elevate. Il comportamento stradale perse la sua agilità da sportiva e l'inserimento in curva divenne molto lento e notevolmente sottosterzante senza però mai perdere la sua proverbiale tenuta di strada.
Sei mesi più tardi, nel Giugno del 1982, la gamma si arricchisce di una nuova versione, la Quadrifoglio Oro, mossa dal motore 2000 ad iniezione meccanica della 2000 LI America. A caratterizzarla esternamente ci pensano i doppi proiettori anteriori, gli inediti cerchi in lega, alcuni particolari di color marrone scuro, come la fascia sottoporta, i paraurti, la calandra, le cornici dei fari posteriori. La dotazione di serie è arricchita dall'adozione di check control, regolazione elettrica degli schienali anteriori e dell'altezza del sedile guida, vetri elettrici posteriori, chiusura centralizzata e trip computer. La Quadrifoglio Oro raggiunge la velocità massima di 185 km/h e consuma mediamente 10,1 litri/100 km.
Da menzionare anche una versione semi-sperimentale denominata CEM (Controllo Elettronico del Motore); sviluppata, nel 1981, in collaborazione con l'Università di Genova, venne realizzata in 10 esemplari derivati dal modello "2.0", con funzionamento modulare (due o quattro cilindri) del motore a seconda delle necessità d'impiego, con il fine di ridurre i consumi. Le auto vennero affidate a taxisti milanesi, per verificarne il funzionamento e le prestazioni in situazioni di utilizzo reale. Terminata la prima sperimentazione, nel 1983, venne prodotta una piccola serie di 991 esemplari CEM, che furono affidati ad una clientela selezionata. Nonostante questa seconda fase sperimentale, il progetto non ebbe ulteriori sviluppi.
Nel 1983 tutta la gamma subì l'ultimo lifting a base di fasce paracolpi laterali molto estese, cornice plastica dei fanali posteriori e colorazione scura di molte parti della carrozzeria quali i montanti anteriori del tetto che ne resero l'aspetto otticamente pesante e fin troppo elaborato.
Anche l'Alfetta "Quadrifoglio Oro" venne aggiornata con l'aggiunta di uno spoiler anteriore, di sedili posteriori con poggiatesta integrato e un nuovo quadro strumenti dalla grafica poco chiara affiancato alla destra da un quadro ausiliario fornito di check control e di un orologio digitale. Il motore venne dotato di accensione e alimentazione a controllo elettronico Bosch Motronic e per la prima volta su un'automobile di serie anche di variatore di fase sull'albero a camme del lato aspirazione.
Alla versione 2.0 turbodiesel ne venne affiancata una con motore, sempre VM, ma di 2393 cm³ da 95 CV. Dopo essere stata venduta in quasi mezzo milione di esemplari ed essere stata la berlina 2000 più venduta in Italia, le vendite delle ultime versioni calarono drasticamente sancendo l'uscita di scena definitiva dell'Alfetta nel 1984. Il suo pianale e la meccanica tuttavia ebbero una vita lunghissima che si protrasse con l'Alfa 75 sino alla prima metà degli anni novanta e diedero vita a una moltitudine di modelli tutti molto apprezzati per le doti dinamiche.
Per completezza d'informazione, si ricorda che la linea dell'Alfetta viene adottata, dal 1974, anche per la brasiliana FNM - Alfa Romeo 2300, ma si tratta di una mera somiglianza estetica, essendo la "2300" molto diversa per dimensioni (41 cm più lunga e 7 cm più larga) e, soprattutto, per l'impostazione tecnica che derivava dal modello "1900".
Dal modello base berlina, utilizzandone il pianale (accorciato) e varie parti meccaniche, nel 1974 fu derivato il modello sportivo in conformazione classica di coupé due porte ma quattro posti, una scelta originale per l'epoca, nata come Alfetta GT (con motore 1.800 cc), successivamente Alfetta GT/GTV (con motore rispettivamente di 1.600 e 2.000 cc) e la successiva GTV6 (con motore 2.500 cc V6).
Già dall'anno successivo alla sua presentazione l'Alfetta fu adottata dalle forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza) divenendo in breve tempo l'automobile-simbolo delle forze dell'ordine italiane e sostituendo nel ruolo di "pantera" e "gazzella" le Giulia Super precedentemente in dotazione a tutte e tre le forze di polizia dell'epoca. Il corpo della Guardia di Finanza disponeva di Alfetta 1.8 e 2.0, adottate nelle varie serie, con colorazione sia grigia che blu.
Alla fine degli anni settanta e per tutti gli anni ottanta, complici le dimensioni del veicolo e il livello di comfort raggiunto dalle versioni post austerity, fu impiegata spesso - in versione normale o blindata - anche come auto blu dell'establishment politico, in alternativa a FIAT e Lancia. È frequente vedere le Alfetta, in filmati telegiornalistici dell'epoca, parcheggiate davanti ai palazzi del potere statale o locale. Fu utilizzata moltissimo anche nel ruolo di auto di scorta, come quella del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro i cui agenti furono trucidati in via Fani nel marzo del 1978.
Sono innumerevoli le pellicole cinematografiche poliziesche e poliziottesche dell'epoca dove è spesso protagonista di spericolati inseguimenti, utilizzata sia dalle forze dell'ordine che dai malviventi.
L'Alfetta e gli USA
La presenza dell'Alfetta sul mercato nordamericano risale al 1975, quando inizia la distribuzione di un modello analogo alla 1.8 dotato però del motore di 2 litri a iniezione meccanica. Nel 1978 la vettura, conosciuta anche come Sports Sedan, viene ristilizzata sulla falsariga della 2.0 L e proposta anche con catalizzatore. Il motore, pertanto, vede scendere la sua potenza a 111 CV a 5000 giri/min (norme DGM), anziché i 130 CV a 5400 giri/min (norme DGM) della 2.0 L a carburatori. In totale sono 3636 le unità esportate della prima serie e 3919 quelle della seconda serie (di cui 1903 con dispositivo antinquinamento). Nel 1981 l'Alfa Romeo commercializza sul mercato italiano una serie di vetture identiche al modello USA e, pertanto, battezzate Alfetta 2.0 Li America. Questa versione, prodotta in 1307 esemplari nel solo colore grigio chiaro metallizzato, si distingue dalla normale 2.0 per i doppi proiettori circolari, i cristalli bruniti, i cerchi in lega leggera, la sottile fascia antiurto alle fiancate ed i paraurti ad assorbimento di energia. Come la versione per gli USA, è dotata di impianto di iniezione meccanica Spica (con cut-off tarato a 1300 giri/min); l'unica differenza sta nell'assenza del catalizzatore (presente invece nella Sports Sedan), indi per cui, la sua potenza massima è ora di 125 CV a 5300 giri/min (sempre secondo norme DGM).
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