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domenica 1 febbraio 2015

ALFA 6



L'Alfa 6 è una berlina prodotta dall'Alfa Romeo dal 1979 al 1987 nello stabilimento di Arese.
Fu immessa sul mercato con l'obiettivo di competere con le berline di fascia medio-alta sia italiane che straniere, le prime rappresentate in pratica solo da Lancia, le seconde da numerosi modelli, soprattutto tedeschi (Mercedes-Benz e BMW su tutti).

La prima serie
La progettazione dell'Alfa 6 (codice di progetto "119") fu avviata all'inizio degli anni settanta e l'entrata in produzione era prevista per la fine del 1973, poiché la Casa di Arese, dopo l'uscita di scena (nel 1969) dalla poco fortunata 2600, voleva rientrare nel settore delle grandi berline a sei cilindri con un modello che si posizionasse sopra l'Alfetta, in modo da sfidare le ammiraglie del settore sfruttando l'appeal meccanico Alfa, congiunto ad una linea allora attuale e ad allestimenti di alto livello.
Il "progetto 119" doveva infatti portare al debutto un nuovo motore V6 da 2,5 litri tutto in alluminio. La crisi petrolifera seguita alla guerra del Kippur (novembre 1973) sconsigliò però i vertici della Casa, allora di proprietà dell'IRI, dal mettere in produzione un'autovettura che percorreva 7 km con un litro di benzina, ed il progetto venne accantonato.
Fu solo verso la fine del decennio, allorché si attenuarono gli shock petroliferi e sociali che avevano attraversato tutto il periodo 1974-1978, che il management Alfa rispolverò il modello. L'Alfa 6 poté così vedere la luce nel 1979. A quel punto il "nuovo" modello scontava, soprattutto nell'estetica oltre che in alcune soluzioni d'allestimento, lo scarto temporale accumulato, pari ad un lustro. Sostanzialmente contemporaneo al "progetto 116" (quello che portò all'Alfetta del 1972), il "progetto 119" ne riprendeva infatti molti concetti, sia tecnici che estetici.
Le linee squadrate e la somiglianza stilistica con l'Alfetta furono gli aspetti che più evidenziavano l'anzianità del progetto, ed appesantivano le linee agli occhi del pubblico - abituato oramai a disegni e stili lanciati verso i patterns degli anni ottanta. Non fu solo l'estetica a frenare le vendite; come già evidenziato, l'impostazione generale del corpo vettura - seppur valido di per sé - risentì di un certo squilibrio nei rapporti dimensionali, soprattutto se messi a confronto con quelli dell'Alfetta: a fronte di un aumento del passo di 9 cm, la lunghezza era cresciuta di quasi mezzo metro, fattore che si rifletteva in uno sbalzo posteriore assai pronunciato; peraltro la larghezza era più ampia di soli pochi centimetri e anche questo faceva sì che l'abitabilità interna non fosse al livello oramai raggiunto dalla concorrenza. Se tutto ciò avrebbe potuto essere accettabile nella prima metà degli anni settanta, non lo era più dieci anni dopo. Tra i particolari estetici, i gruppi ottici posteriori apparivano molto grandi, i paraurti (in metallo con cantonali in gomma) massicci e datati; la presa d'aria sporgente sul montante posteriore veniva giudicata poco elegante.
Tecnicamente, seppur non più all'avanguardia, rimaneva valida la meccanica che, seguendo lo schema a motore anteriore longitudinale e trazione posteriore, si distingueva invece per un raffinato "mix" di spunti tipici della Casa. L'Alfa 6 - oltretutto - non era stata dotata dello stesso schema transaxle con cambio al retrotreno in blocco con il differenziale, caratteristici dell'Alfetta; per migliorare lo spazio a disposizione dei passeggeri posteriori, era stato preferito l'impiego di un differenziale "sospeso" come già visto sulla TZ; manteneva però le sospensioni posteriore a ponte De Dion con parallelogramma di Watt (per evitare gli scuotimenti laterali sempre criticati sulle vetture a ponte rigido tradizionale) e, all'avantreno, quadrilateri deformabili con elementi elastici a barra di torsione. L'impianto frenante era costituito da quattro freni a disco di cui quelli posteriori entrobordo per ridurre le masse non sospese e quelli anteriori (per la prima volta su un'Alfa di serie) ventilati e con pinze Ate a 4 pistoni.
Il punto forte della nuova ammiraglia di Arese era considerato il motore V6 da 2.492 cm³ alimentato da sei carburatori monocorpo (con potenza massima di 158 CV), abbinato ad un cambio manuale a cinque rapporti montato in blocco col motore, un raffinato ZF ad H invertita già utilizzato sulla Montreal. A richiesta era disponibile un cambio automatico ZF a tre rapporti. Per quanto riguarda la qualità dell'interno - fermo restando lo stile ed il disegno non più recenti - le finiture venivano comunque giudicate discrete, certamente superiori alla media Alfa Romeo dell'epoca.
La prova della rivista specializzata Quattroruote mise in luce le buone caratteristiche del motore, il comportamento stradale valido, ma anche i consumi elevati e la linea superata. Uno degli aspetti più criticabili era infatti la tecnologia ormai obsoleta utilizzata per la gestione dell'alimentazione: per ragioni di tempi e costi (l'iniezione avrebbe richiesto uno sviluppo ex-novo) e ingombri in altezza (i carburatori pluricorpo verticali presenti sul mercato non avrebbero trovato posto sotto il cofano), vennero utilizzati sei carburatori Dell'Orto FRDA di comune utilizzo sulle utilitarie, raggruppati per mezzo di una basetta in alluminio e sincronizzati tra loro con una complicata serie di leve e rinvii. La necessaria adozione di un congegno smagritore per ridurre i consumi a velocità costante, i consumi elevati (anche se all'epoca non scandalosi) e la necessità di complesse registrazioni periodiche resero in prospettiva questa scelta di dubbio vantaggio economico e forse la più penalizzante in termini di immagine e, dunque, di appeal del prodotto, che come avvenne anche con l'Alfa 90 costrinse l'azienda a cercare invano una soluzione con una seconda serie riveduta e corretta.
L'Alfa Romeo tentò di promuovere la grande robustezza della scocca ma, per colmo di sfortuna, nel 1981 l'attore Gino Bramieri (fra i primi acquirenti del modello) distrusse la sua Alfa 6 automatica in un drammatico incidente nel quale perse la vita l'attrice Liana Trouche. Va detto, però, che l'attrice morì perché fu sbalzata fuori dall'abitacolo in quanto non aveva allacciato la cintura di sicurezza, malgrado la vettura ne fosse provvista; l'attore, comunque, attribuì l'incidente al malfunzionamento del cambio automatico.
Della prima serie, prodotta fino alla fine del 1982, sono stati costruiti circa 6.000 esemplari.

La seconda serie
Nel 1983, nel tentativo di risollevare le sorti commerciali del modello, l'Alfa 6 venne sottoposta a un restyling. L'IRI non approvò, tuttavia, costosi interventi sulla scocca. Seguendo infatti un atteggiamento comune in Alfa nella prima metà degli anni ottanta, convinzione rinforzata dalla prospettiva che l'auto - comunque, anche se ridisegnata - non avrebbe potuto giovarsi di numeri di vendita accettabili e dalla situazione finanziaria sempre più grave dell'azienda, i designer non poterono toccare le lamiere; le modifiche si concentrarono sull'estetica e sugli interni col risultato che, dovendo rinnovare l'auto solo attraverso plastiche ed aggiunte, la linea risultà appesantita senza ottenere - a colpo d'occhio - sensibili miglioramenti.
Seguendo il concetto di "family feeling" con gli altri modelli di punta della prima metà degli anni ottanta (l'Alfetta e l'Alfa 90, di imminente lancio sul mercato), all'esterno cambiarono - comunque - i fari (due, trapezoidali, in luogo dei quattro circolari, con indicatori di direzione bianchi anziché arancioni), la mascherina anteriore, i paraurti (ora totalmente in plastica e privi di rostri, fatto che fece scendere la lunghezza del modello a 4,68 m) e comparvero nuovi profili laterali paracolpi e inediti spoiler aerodinamici sotto i paracolpi. L'assetto divenne più basso, dando alla vettura un aspetto più filante. All'interno, vennero ridisegnate le sagome dei sedili ed i pannelli porta; la plancia venne ritoccata in maniera minore.
Dal punto di vista tecnico si segnalava l'adozione dell'iniezione elettronica che donava al V6, sempre di 2,5 litri, maggior dolcezza d'erogazione e maggior sobrietà nei consumi. La potenza rimase stabile a 158 cavalli.
In generale, visti i pesanti compromessi economici imposti dalla dirigenza, il lavoro di ritocco può oggi dirsi apprezzabile, ma la linea ormai obsoleta e la fama di insaziabile bevitrice non permisero di migliorare lo scarso successo commerciale, nonostante le indubbie ottime doti dinamiche della vettura e il comfort di alto livello di cui si godeva a bordo grazie anche alle ridotte vibrazioni del motore V6 di 60°.
Sul mercato interno, nel tentativo di rendere più appetibile fiscalmente l'auto, la 2.5i, disponibile solo nell'allestimento ricco Quadrifoglio Oro (completo anche di aria condizionata e sedili a regolazione elettrica) ma gravata da IVA raddoppiata al 38%, venne affiancata dalla 2.0 V6 (equipaggiata col V6 a carburatori di cilindrata ridotta a 1.996 cm³ per 135 cavalli) e 2.5 Turbodiesel 5 (spinta da un cinque cilindri di origine VM Motori di 2.494 cm³ da 105 cavalli). Questi due modelli furono penalizzati nelle prestazioni da una massa considerevole per l'epoca (la 2.0 V6 pesava 1.470 kg e la Turbodiesel 5 addirittura 1.580 kg).
L'Alfa 6 restò sul mercato per altri quattro anni, con un impatto progressivo sul mercato sempre più trascurabile, ed uscì di listino nel 1987, sostanzialmente rimpiazzata dalla 164, ch.e contemporaneamente sostituì anche la più piccola 90.
Anche della seconda serie erano stati prodotti circa 6.000 esemplari. Le ultime vetture prodotte, giacenti invendute nel deposito di Arese, furono esportate due anni più tardi in Polonia e in altri paesi dell'Est europeo.

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